L’immagine-tempo: un’introduzione
Il cinema, dal dopoguerra in poi, anzitutto attraverso l’opera di Alfred Hitchcock e susseguentemente grazie all’imporsi del “neorealismo” italiano , ritrova un modo nuovo di prodursi: il mondo diventa, da spazio all’interno del quale poteva (e anzi “doveva”) dispiegarsi un’azione, spazio di interrogazione e messa in questione profonda della realtà stessa: l’immagine perciò perde il suo legame fondamentale col movimento, smette i panni di immagine-movimento, per farsi definitivamente immagine-tempo. Il tempo diventa allora il concetto cardine attorno al quale si articolerà qualsiasi possibile analisi di questo nuovo cinema, proprio perchè l’investigazione del mondo che il cinema mette in atto, spezzando tutti legami senso-motori che sino ad allora ne avevano informato ed ispirato l‘immagine, mette immediatamente in questione lo strutturarsi dell’esperienza: la linea retta del tempo, che costituiva l’essenziale della narrazione , si sfalda , si spezza , e sgretolandosi spazza via il senso, creando le condizioni per un indagine che diventa messa in questione del tempo e della memoria. Laddove l’immagine-movimento implicava un agente l’immagine-tempo implica un veggente. Dalle immagini ottico-sonore pure di Roberto Rossellini (1906-1977), alle infinite biforcazioni delle trame del cinema di Alain Resnais (1922), sino alle indagini di Quarto Potere di Orson Wells (1915-1985), il paradigma che si impone è proprio questo: nessun movimento è possibile, finchè non si riesca a distinguere il vero dal falso, il presente dal passato.
L’immagine, perdendo il proprio concatenamento senso-motorio, non si ricollega più con l’immagine seguente, ma piuttosto con la sua immagine virtuale, col correlato immaginifico che ogni presente si porta dietro e produce: la protagonista di Europa 51′ di Roberto Rossellini visita una fabbrica e dice “ho creduto di vedere una prigione”: la fabbrica diventa una prigione, e la prigione è l’immagine virtuale della fabbrica come immagine attuale.
Il prodursi di questa differenziazione tra attuale e virtuale, l’indiscernibilità che mano a mano sugli schermi cinematografici trova spazio tra “reale” e “immaginario” è un fatto che, nell’impostazione di Deleuze, ha a che vedere innanzitutto col Tempo, col suo statuto e con la sua forza.
E’ a partire da questi presuspposti che Deleuze ritiene necessario sviluppare anzitutto un concetto di tempo che possa interecettare e spiegare questi nuovi “motivi” che strutturano il cinema del dopoguerra e non solo, ovviamente: i motivi rintracciati da Deleuze come caratteristici di un “nuovo cinema” li ritroveremo dappertutto in seno a tutto un certo tipo di produzione cinematografica e non, anche successiva alla morte del filosofo francese, avvenuta nel ’95 (si considerino le opere di registi come David Lynch ( Strade perdute , Mulholland drive) Quentin Tarantino ( su tutti Pulp Fiction) Gus Van Sant ( Last Days, Elephant) e la realizzazione di serial televisivi come Lost o 24: si può dire che tanto al cinema come alla televisione, la questione che riguarda una “temporalità non cronologica” è sempre più centrale e inaggirabile). Sarà ancora una volta sulla scia di Bergson allora che Deleuze strutturerà la sua teoria, e sarà ancora una volta a partire da Materia e Memoria, che il cinema può ritrovare, sull’asse Bergson-Deleuze, una nuova possibilità di farsi “senso”.
Deleuze, Bergson, il Tempo e il “cristallo”
“Il visionario, il veggente, è colui che vede nel cristallo e ciò che vede è lo zampillio del tempo come sdoppiamento, come scissione”[1]
Il cinema è anzitutto immagine-moviemento, anzi cinema, realtà e immagine-movimento sono rigorosamente la stessa cosa [2]. Il tempo allora, dedotto dal movimento costitutivo dell’immagine, può essere esperito solamente indirettamente, attraverso la mediazione del movimento stesso. Ma cosa succede quando l’immagine cinematografica perde la sua capacità di mutare grazie ad un movimento che l’attraversa? cosa succede quando il concatenamento senso motorio che lega due immagini si spezza? quando una percezione non da luogo a nessuna azione, ma solo ad una “perlustrazione”, ad un’immagine ottico-sonoro pura, come per la straniera di Stromboli? Succede che il movimento passa in secondo piano, o addirittura scompare, e rimane il tempo, il Tempo come fattore strutturante dell’immagine, che , tolto il movimento, può essere esperito e conosciuto non più in maniera indiretta, ma bensì pura, diretta, nella sua essenza. Questo perché l’immagine che scaturirà dalla mera perlustrazione, dal semplice “andare a zonzo”[3] come lo chiama Deleuze, sarà un’immagine che non avrà più come suo prolungamento naturale l’immagine successiva (il “prodotto“ di un‘azione), ma piuttosto si concatenerà direttamente con il passato del personaggio che ne fa esperienza: il segno costitutivo dell’immagine in sostanza diventa, soprattutto per quel che riguarda il neorealismo e gli inizi della “nouvelle vague” con le loro immagini ottico sonore pure, il “riconoscimento”.
Riconoscimento in quanto ciò che viene ad essere problematizzato è il rapporto che l’immagine esperita può (o non può) intessere con un’altra immagine, presente nella memoria, che possa appunto “riconoscerla”. Occorre allora anzitutto analizzare i meccanismi grazie ai quali può prodursi questo riconoscimento, e in secondo luogo osservare la maniera nella quale questi meccanismi si ricollegano al concetto di Tempo che Deleuze, sempre attraverso Bergson, elabora.
Il “riconoscimento”, secondo Deleuze (costantemente ispirato da Materia e memoria[4]) si distingue in due specie differenti. Il primo è il riconoscimento cosiddetto “abituale o automatico” (la mucca riconosce l’erba) che si realizza “per prolungamento: la percezione si prolunga in movimenti d’uso, i movimenti prolungano la percezione per trarne degli effetti utili”[5].E’ un riconoscimento basato fondamentalmente sull’abitudine, e sul movimento: “si sono formati dei meccanismi motori che la semplice vista basta a far scattare”[6].In tal senso non ci si sofferma mai sull’oggetto “riconosciuto”, ma si passa costantemente da un oggetto all’altro, pur rimanendo sempre sullo stesso “piano” (la mucca passa da un ciuffo d’erba ad un altro).
Di natura diversa è invece il riconoscimento detto “attento”. Esso non si svilupperà attraverso un prolungamento che produce del movimento, l’azione che sono costretto a compiere è quella di un ritorno costante all’oggetto al fine di estrarne qualche tratto caratteristico che possa permettermi di riconoscerlo: in questo senso non avviene più, come visto in precedenza, il passaggio da un oggetto all’altro che si trovano sullo stesso piano, ma è piuttosto l’oggetto considerato che, restando identico, passa da un piano all’altro. Nel primo caso allora avevamo estratto dall’oggetto percepito un’un immagine che era senso-motoria, che prolungava la percezione in un movimento; nel secondo invece abbiamo dell’oggetto un’immagine ottica-sonora allo stato puro, ossia una descrizione che in un certo senso “cancella“ l‘oggetto in-sé, per farlo rinascere come descrizione stessa. E’ chiaro che i due tipi di riconoscimento danno luogo a situazioni diverse: il riconoscimento automatico è di per se generatore di un movimento, poiché sgancia il soggetto da ogni possibile interrogazione, aprendolo all’azione: tenendo conto esclusivamente di quei fattori che possono rivelarsi utili al fine di prolungare la percezione in un’azione, mette un corpo nelle condizioni di agire nel miglior modo possibile, è dunque elemento essenziale al costituirsi dell’immagine-movimento. Al contrario invece, il riconoscimento attento, spezza il possibile legame senso-motorio di una percezione qualsiasi, facendola diventare oggetto d’interrogazione, ricerca, che si fa nella memoria e nel passato, entrando perciò in rapporto diretto con una dimensione che è quella del Tempo, non più quella del movimento.
Il problema, la questione, a questo punto, è cercare di capire a cosa si concatena quest’immagine ottico-sonora pura, questa “descrizione”. Se essa infatti perde il suo concatenamento senso-motorio, dovrà pur ritrovare da qualche altra parte un suo prolungamento, altrimenti sarebbe la stessa macchina-cinema ad arrestarsi.Per Deleuze, in un primo momento sia Bergson, sia il cinema stesso, sembrano rispondere a quest’interrogativo col ricordo, o meglio, con “l’immagine-ricordo”.
Al cinema la cosiddetta immagine-ricordo ha un suo statuto specifico ed una sua precisa grammatica: essa è espressa attraverso il procedimento del “flashback”, che , nelle parole di Deleuze, “è un semplice cartello convenzionale”[7] attraverso il quale il regista ci comunica che si sta entrando in una dimensione temporale diversa, spesso attreverso tecniche come la dissolvenza incrociata e le immagini sovrapposte.
Il flashback però, proprio in quanto immagine-ricordo che si attualizza, stabilisce un circuito con l’immagine che l’ha generato, risolvendo immediatamente “l’immobilità” dell’immagine ottico sonora, reinscrivendola nel normale fluire della narrazione. Esso di fatto destituisce e annulla la potenza innovatrice di cui il riconoscimento attento si faceva portatore, annullando tutta la carica enigmatica di quel procedimento, risolvendo il dubbio attraverso l’attualizzazione di un ricordo, che ristabilisce in questo modo le condizioni per un normale proseguimento dell’azione. Questo avviene perché la carica di quel “riconoscimento mancato” viene destituita attraverso l’attualizzarsi del ricordo: come è allora possibile sviluppare appieno questa potenza? Come fa il cinema a portare alle estreme conseguenze questa enigmaticità della visione?
La risposta di Deleuze a quest’interrogativo passa necessariamente per una teoria del tempo che ha come elemento centrale il rapporto tra la dimensione dell’ “attuale” e quella del “virtuale”. Se la dimensione dell’attuale ha un carattere di facile comprensione, risiedendo per l’appunto in ciò che è in atto, che è effettivamente presente, quella del virtuale, pur essendo nozione fondamentale dell’intero percorso filosofico di Deleuze, ha un connotato molto più vago e complesso. Ma è proprio a partire dal rapporto che si stabilisce fra di esse che il tempo può esser compreso nella sua “essenza”. Lo strutturarsi dell’esperienza è infatti, all’interno del pensiero deleuziano (costantemente ispirato da Bergson) caratterizzato da uno sdoppiamento , da una biforcazione: il tempo si divide in due getti di cui uno è il presente-attuale, mentre l’altro è il passato-virtuale:
“il passato non succede al presente che non è più, coesiste con il presente che è stato. Il presente è l’immagine attuale e il proprio passato contemporaneamente, è l’immagine virtuale, l’immagine allo specchio”.[8]
Questo significa che ogni esperienza fatta, che ogni accadimento, genera in colui che la vive due immagini distinte, seppur legate fra di loro: immagine-attuale del presente, e immagine-virtuale del passato. In sostanza, seguendo Deleuze, passato e presente non sono due dimensioni che si formano l’una in conseguenza dell’altra ma piuttosto coesistono: contemporaneamente al presente (attuale) che passa, che scorre, si forma un passato, un passato-in-sé, virtuale, che resta e si stratifica. E’ questo l’altro tratto caratteristico dell’articolarsi delle due dimensioni attuale-virtuale: tutti i passati-virtuali coesistono fra di loro nella stessa dimensione del virtuale.
Le grandi tesi di Bergson sul tempo si presentano così: il passato coesiste con il presente che è stato; il passato si conserva in sé, come passato in generale (non cronologico); il tempo si sdoppia a ogni istante in presente e passato, presente che passa e passato che si conserva.[9]
Queste due dimensioni del tempo hanno una natura completamente diversa: il passato puro, il “virtuale”, non è un presente divenuto passato, esso è piuttosto “un passato che non fu mai presente” [10], esso non esiste in quanto attualizzazione di presente divenuto passato, ma piuttosto in quanto virtualizzazione di un passato che non è mai stato presente, tra i due, in sostanza, non vi è differenza di grado, bensì di natura. Al fine di chiarir meglio lo statuto concettuale di questo “puro passato virtuale” può essere utile riferire un eccezionale passaggio di Differenza e Ripetizione nel quale Deleuze illustra come il “virtuale” sia alla base della “Recherche” proustiana[11]:
Combray non risorge come fu presente, né come poteva esserlo, ma in uno splendore che non fu mai vissuto, come un passato puro che rivela infine la sua duplice irriducibilità non solo al presente che è stato, ma anche al presente attuale che potrebbe essere grazie al loro incontro. Gli antichi presenti si lasciano rappresentare nella sintesi attiva al di là dell’oblio, nella misura in cui l’oblio è sconfitto empiricamente. Ma qui, nell’Oblio, e come memoriale, Combray sorge sotto forma di un passato che non fu mai presente, come l’In-sé di Combray. La reminescenza non rimanda semplicemente da un presente attuali ad antichi presenti. […]Il presente esiste, ma solo il passato insiste e fornisce l’elemento in cui il presente passa e i presenti s’incontrano[12]
Si evince che il cosiddetto “passato-puro” (o “virtuale”) è una dimensione ,particolarissima, che poco ha a che vedere con quanto si dà come “oggettivo”, esso è tutto legato al regime del “soggettivo”, ma , come ci illustra Deleuze, “la soggettività non è mai la nostra, è il tempo, cioè l’anima o il virtuale”. [13]
Si è detto che attraverso il flashback le possibilità dell’immagine ottico sonora pura venivano destituite, poiché l’immagine ricordo veniva reinscritta nel normale fluire dell’azione: in sostanza ciò che veniva a mancare era la presentazione diretta del tempo come biforcazione di attuale e virtuale, il tempo continuava ad essere esperito in maniera indiretta, subordinato al movimento in seno al quale l’immagine ricordo veniva recuperata.
Questo perché ciò che il flashback attualizza non è la dimensione “virtuale” della cosa, ma il mero “antico presente“. Sarà invece proprio a partire da un nuovo rapporto tra immagine-attuale e immagine-virtuale che il cinema strutturerà una nuova immagine del tempo. Laddove infatti il riconoscimento attento non passa per un immagine-ricordo che attualizza in maniera definitiva quel pezzo mancante che aveva prodotto l’arresto nell’azione, ma rimane in qualche modo “riconoscimento mancato”, esso si trasforma in installazione di una coscienza in un “passato puro”: “è il modo di raccontare il “gioco con il tempo” sotto forma di installazione nelle “regioni”, nei “giacimenti” e negli “strati” del passato e non sotto forma di “richiamo” del passato attraverso le immagini ricordo”[14].Questa operazione dà luogo al prodursi di immagini che, come abbiamo visto in Proust, diventano inassegnabili, dove l’indiscernibilità tra attuale (antico presente) e virtuale (passato puro) diventa assoluta: è la potenza espressa da quella che Deleuze chiama “immagine cristallo”. All’interno del cristallo infatti, ciò che si vedrà non sarà mai “un” presente e “un” passato, ma saranno presente e passato a coesistere come due facce di uno stesso oggetto, di uno stesso evento: “distinti, ma indiscernibili, tali sono l’attuale e il virtuale, che non cessano di scambiarsi”[15].E’ col cristallo dunque che il cinema risponde a quell’esigenza di mostrare il tempo in maniera “diretta”, senza la mediazione del moviemento, scavalcando il flashback per potenza espressiva
Ciò che costiutuisce l’immagine-cristallo è l’operazione fondamentale del tempo: dato che il passato non si forma dopo il presente che esso è stato, ma contemporaneamente, il tempo deve in ogni istante sdoppiarsi in presente e passato, differenti per natura l’uno dall’altro o, ed è lo stesso, deve sdoppiare il presente in due direzioni eterogenee, di cui una si slancia verso l’avvenire e l’altra ricade nel passato. Il tempo deve scindersi mentre si pone o sis volge: si scinde in due getti asimmetrici uno dei quali fa passare tutto il presentee l’altro conserva tutto il passato. Il tempo consiste in questa scissione, è essa, esso che si vede nel cristallo [16]
Caratteristiche fondamentali del cristallo saranno allora sia questo differenziarsi continuo del tempo nei due getti attuali e virtuali, sia la coalescenza e l’indiscernibilità[17] di queste due dimensioni, poichè le due immagini, le due dimensioni, non semttono costantemente di scambiarsi di posto, rincorrendosi l’un l’altra , rendendo inassegnabili gli statuti di attualità e virtualità:
“L’immagine-cristallo ha ben due facce che non si confondono. La confusione tra reale e immaginarioè un semplice errore di fatto e non concerne la loro discernibilità[…]L’indiscernibilità invece costituisce un’illusione oggettiva; non sopprime la distinzione delle due facce,ma la rende inassegnabile, poiché ogni faccia assume il ruolo dell’altra, in una relazione che si può definire di presupposizione reciproca, o di reversibilità.”[18]
La questione dell’indiscernibilità di attuale e virtuale diventa perciò uno snodo centrale nella strutturazione dell’immagine cristallo: è essenziale che attuale e virtuale non siano l’uno da una parte e l’altro dall’altra, essi devono diventare indiscernibili, per preservare quel “contenuto di virtualità” che non può, per sua stessa natura, essere “attualizzato”.
Questo avrà modo di realizzarsi quando un’immagine attuale, e la “propria” immagine virtuale formeranno un circuito di indiscernibili: la forma più classica di questo circuito, la più stretta, è quella dell’immagine allo specchio. Né La signora di Shangai di Orson Wells, quando i due personaggi si trovano nella casa degli specchi, troviamo l’immagine-cristallo che Deleuze definisce “perfetta”, “in cui gli specchi hanno catturato l’attualità dei personaggi che potranno riconquistarla solo rompendoli tutti, per ritrovarsi fianco a fianco e uccidersi l’un l’altro”[19]. E’ a partire da questo schema, da questo “più piccolo circuito interno” [20] che può generarsi ed espandersi il cristallo, fino ad arrivare alla totalità del tempo, fino a prolungarsi verso l’insieme della storia nella sua totalità: impossibile non pensare ad un opera come quella di David Lynch, e ad un film come Mulholland Drive: sarà qui che la struttura cristallina pervaderà il “tutto” del film, sino a prolungare l’indecidibile alternativa tra attuale e virtuale al livello della storia nella sua interezza. Le due storie, che articolano in maniera totalmente diversa i percorsi delle due protagoniste Betty e Diane, sono come due gigantesche immagini allo specchio, che non smettono di rilanciarsi l’un l’altra, senza lasciare spazio ad un’assegnazione possibile tra dimensione attuale e dimensione virtuale. E’ dunque attraverso la struttura cristallina che sarà possibile osservare la dimensione temporale nell’attimo della sua fondazione, il cristallo infatti “non è il tempo, ma si vede il tempo nel cristallo. Nel cristallo si vede l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico, Kronos e non Chronos”[21]. Il cristallo pertanto più che costituirsi come temporalità in se stesso, più che “essere” il tempo, rappresenta lo stratagemma cinematografico attraverso cui possiamo prendere coscienza della sua fondazione: se il Tempo, filosoficamente, e deleuzianamente, è “ratio essendi”[22], il cristallo sarà come una “ratio cognoscendi”[23] del tempo stesso.Ma proprio in virtù della rivelazione del regime cristallino dell’immagine, del prodursi di questo doppio getto di “presenti che passano” e “passati che si conservano” il cristallo da luogo ad altre due immagini-tempo possibili, una fondata sul passato, l’altra sul presente.
Punte di presente, falde di passato: Deleuze, Welles, Resnais
“Il proposito che lo guidava non era impossibile, anche se soprannaturale. Voleva sognare un’uomo: voleva sognarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”[24]
Abbiamo visto come, nella prospettiva di Deleuze, sulla scia del bergsonismo, il tempo si sdoppiasse in due getti distinti, presente “attuale” e puro passato “virtuale”, e come questo biforcarsi costante del tempo venisse messo in luce in seno all’immagine cristallo: il “cristallo” ci fa vedere il tempo nel momento della sua fondazione, esso non “è” il tempo, ma è lo strumento cinematografico attraverso il quale facciamo esperienza del suo sdoppiamento.
Questa riflessione però apre immediatamente ad una possibilità ulteriore: se attraverso l’immagine cristallina “vediamo” il tempo sdoppiarsi, sarà allora ben possibile istallarsi direttamente in seno alle due dimensioni, per ricavarne delle immagini-tempo una interamente basata sul presente, l’altra tutta incentrata sul passato. Secondo la linea di pensiero formulata sull’asse Deleuze-Bergson, il passato esiste perciò non come antico presente attualizzato, ma come dimensione virtuale che contiene un “puro passato”. Questo è in qualche modo coesistente a se stesso, il che equivale a dire che i passati non sono l’uno successivo all’altro, ma contemporanei: come riporta Deleuze citando Federico Fellini (1920-1993): “siamo fatti di memoria, siamo insieme infanzia, adolescenza, vecchiaia e maturità”[25]. Questo vuol dire che dal punto di vista di un presente attuale, tutto il passato coesiste nella dimensione del virtuale, privo di qualsiasi dimensione “cronologica”:
Certo queste regioni (la mia infanzia, la mia adolescenza, la mia maturità, eccetera) sembrano succedersi, ma unicamente dal punto di vista degli antichi presenti che marcarono il limite di ciascuno. Coesistono, al contrario, dal punto di vista dell’attuale presente che rappresenta ogni volta il loro limite comune o quello più contratto[26].
Il presenta attuale allora funge da sorta di punta estrema, di limite massimamente contratto, di questo “cono della memoria” che contiene in se tutto il passato, il presente allora “da questo punto di vista esiste soltanto come un passato infinitamente contratto che si forma alla punta estrema del “già-là”[27], dove il “già-là” consiste appunto nel passato puro, che , deleuzianamente, esiste da sempre , “una sorta di preesistenza in generale, presupposta dai nostri ricordi, anche dal nostro primo ricordo, se ne esistesse uno, e utilizzata dalle nostre percezioni, anche dalla prima”[28].
Di questo modo, ogni volta che si cercherà un ricordo, bisognerà installarsi in una di queste regioni del cono, in una di queste “falde”, al fine di ritrovare l’immagine-ricordo necessaria: sarà proprio questo andirivieni da una “falda” all’altra a costituire l’architettura del primo grande film che esprime un “cinema del Tempo”, quel Quarto potere di Orson Welles sul quale sarà necessario ritornare; ed è questa una delle due possibilità dell’immagine di installarsi direttamente in una delle dimensioni della temporalità, ossia quella del passato: rendere conto di un tempo “non-cronologico”, mostrare questa “preesistenza del passato in generale, la coesistenza delle falde di passato, l’esistenza di un grado più contratto”[29] . Ma per l’appunto, come abbiamo anticipato, un’altra immagine-tempo è possibile, un’immagine-tempo interamente imperniata sul presente come “tutto” del tempo. Per realizzare ciò è necessario che, così come avvenuto per il passato, che diventa altro dalla mera immagine-ricordo attualizzata, il presente si svincoli dalla sua propria attualità: sarà necessario che nell’immagine più presenti coesistano fra di loro, di modo tale che un singolo evento non si esaurisca nel momento nel quale si compie.
Deleuze fa ricorso alla formula di sant’Agostino[30], secondo cui esiste un presente del presente, un presente del passato e un presente del futuro, “che sono tutti implicati nell’avvenimento, arrotolati nell’avvenimento, dunque simultanei, inesplicabili”[31]. Qui ritroviamo un motivo tipico della filosofia deleuziana, quella filosofia dell’ “evento puro” che aveva già trovato ampia trattazione ne La logica del senso[32]. In questo libro, ispirato fortemente dal pensiero dello stoicismo, Deleuze poneva particolare attenzione all’analisi delle opere di Antonin Artaud e Lewis Carroll, e proprio riferendosi alla più celebre delle opere dello scrittore inglese, scriveva:
In “Alice” e in “Attraverso lo specchio” , viene trattata una categoria di cose specialissime: gli eventi, gli eventi puri. Quando dico “Alice cresce”, voglio dire che diventa più grande di quanto non fosse. Ma voglio anche dire che diventa più piccola di quanto non sia ora. Senza dubbio, non è nello stesso tempo che alice sia più grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo diventa. E’ più grande ora, era più piccola prima. Ma è nello stesso tempo, in una sola volta, che si diventa più grandi di quanto non si fosse prima, e che ci si fa più piccoli di quanto non si diventi.[33]
Questa sorta di doppia articolazione del divenire, che “spinge nei due sensi contemporaneamente”, realizza , di fatto, uno sdoppiamento del presente: è nello stesso presente che Alice diverrà più grande di ciò che e più piccola di ciò che sarà.
Questo sdoppiamento, che per Deleuze rappresenta la natura propria dell’evento, fonda di colpo una vera e propria immagine-tempo, dove due presenti distinti si realizzano in seno allo stesso evento. Da qui alla formula di Sant’Agostino il passo è veramente breve: “è la possibilità di trattare il mondo, la vita o semplicemente una vita, un episodio, come un unico e medesimo avvenimento, che fonda l’implicazione dei presenti”[34]. Quest’implicarsi dei presenti uno nell’altro, sottraendo ad ognuno di essi la propria attualità, è per l’appunto l’incarnazione della teoria deleuziana dell’evento.
Sarà pertanto il palesarsi in seno all’immagine di questa sorta di “doppia direzione” che quindi spezzerà l’attualità di qualsiasi presente, erodendone il correlato cronologico : ci troviamo di colpo in un nuovo regime dell’immagine che non dipende più dalla “coesistenza delle fale di passato”, ma piuttosto da una “simultaneità di punte di presente”[35]. Tale formalizzazione teorica non può prescindere dal chiamare in causa l’opera cinematografica forse più signifcativa in questo senso, L’anno scorso a Marienbad, frutto della collaborazione fra Alain Resnais, il più atipico dei registi della generazione della “nouvelle vague”, e Alain Robbe-Grillet (1922-2008), massimo esponente del movimento del “nouveau roman”.
Il film, che sotto il profilo della distinzione “punte di presente” “falde di passato” vanta un’una potentissima indefinibilità (che è caratteristica delle differenze dei due “autori” Robbe-Grillet e Resnais) è interamente giocato sul dubbio e sull’ambiguità su ciò che è accaduto “l’anno scorso a Marienbad” fra i due protagonisti (chiamati enigmaticamente “A” e “X”), e fa continuamente mostra di immagini nelle quali la distinzione fra reale e immaginario è costantemente messa in dubbio, dove due presenti, distinti nel tempo, si trovano ad essere contemporanei; oppure dove il presente di uno (“X”) non collima con quello dell’altra (“A”).
La narrazione consisterà allora nel distribuire i differenti presenti ai diversi personaggi, in modo che ciascuno formi una combinazione plausibile, possibile in se stessa, ma che tutte insieme siano “incompossibili” e in questo modo sia mantenuto, suscitato, l’inesplicabile.[37]
Questo film, particolarissimo ed in un certo senso complicatissimo, rappresenta uno degli snodi principali della storia del cinema attorno al quale muove tutta la teoria del cinema sviluppata Deleuze. E pur rappresentando una delle opere forse in assoluto più riuscite per quel che riguarda il cosiddetto “cinema del tempo”, esso non è certo il primo film dove il Tempo viene mostrato in maniera “diretta”, cioè non subordinata al movimento. Anzi, “la prima volta che apparve nel cinema un’immagine-tempo diretta, non fu sotto gli aspetti del presente (anche implicato), ma al contrario sotto la forma delle falde di passato, con Quarto potere di Welles”[38]. Il film di Welles costituisce pertanto il primo vero esempio di “cinema del tempo”, e si pone dunque come seminale rispetto alle modalità entro le quali la dimensione temporale verrà trattata in seno all’evolversi del cinema.
Lo schema all’opera in Quarto potere è fondamentalmente semplice: morto Kane, il protagonista magnate dell’industria e della comunicazione, sulla base dell’ultima parola pronunciata da questi (“Rosabella”) si svilupperà un’inchiesta giornalistica che coinvolgerà tutte le figure principali della sua vita, che verranno di volta in volta chiamate in causa per evocare le proprie immagini-ricordo sotto la forma di vari flashback soggettivi. Il film, che al pari del Marienbad di Resnais e Robbe-Grillet, costituisce uno snodo fondamentale della teoria del cinema di Deleuze, riesce a sviluppare una concezione della temporalità e del “Passato” che va oltre la semplice attualizzazione di una serie immagini-ricordo. L’opera, pur articolandosi secondo un susseguirsi di flashback che fondamentalmente seguono l’ordine cronologico della vita di Kane, sviluppa quello che secondo Deleuze è un doppio regime che “induce due specie di immagini ben distinte […] Le prime ricostruiscono delle serie motorie di antichi presenti, delle “attualità” o perfino delle abitudini[…]Ma cosa succede quando gli sforzi accumulati da Susan sfociano in una scena in profondità di campo, il suo tentativo di suicidio? Questa volta l’immagine procede alla vera e propria esplorazione di una falda di passato”[40].
E’ come se l’immagine in profondità di campo non si legasse più ad un movimento, ad un’attualità: essa diviene una vera e propria esplorazione, un’installarsi di colpo in una falda di passato, per poi procedere alla sua esplorazione. E’ quindi tramite questo procedimento “tecnico” che Welles, che è stato secondo Deleuze il primo grande cineasta ad utilizzarlo in maniera veramente espressiva, riesce a farci percepire una temporalità che smette di essere cronologica per diventare quel “già-là” del passato in generale da cui è dedotta la coesistenza delle falde di passato della teoria di matrice bergsoniana. E’ anzi la stessa profondità di campo che , per sua natura , “crea un certo tipo di immagine-tempo diretta, che si può definire con la memoria, le regioni virtuali di passato, gli aspetti di ciascuna regione. Più che una funzione di realtà, sarebbe una funzione di memorazione: non proprio un ricordo, ma un invito a ricordare…”[41]. La profondità di campo è infatti solitamente chiamata in causa in relazione ad una necessità della memoria, trovando applicazione in due diverse tipologie di contesto:
Si tratta o di uno sforzo di evocazione prodotto in presente attuale, e precedente la formazione di immagini-ricordo, o dell’esplorazione di una falda di passato da cui queste immagini-ricordo sorgeranno ulteriormente.
La profondità di campo diventa dunque un dispositivo che agisce sempre in un “al di qua” o in un “al di là” del semplice ricordo attualizzato: o il ricordo ancora non è stato evocato, perché ci troviamo ancora in un presente attuale nel quale si svolge lo “sforzo” di rammemorazione, oppure ci troviamo già di colpo in una falda di passato puro, nella quale andremo a cercare le immagini ricordo.
Questa “teoria” della profondità di campo elaborata da Deleuze si ricollega ad un’altra delle teorie bergsoniane sulla memoria, e sul suo fallimento, contenute in Materia e memoria. Bergson distingue due grandi casi in cui la memoria fallisce : questo avviene o quando il ricordo può essere evocato ancora in un immagine, ma questa non serve più a nulla (ne è un esempio Quarto potere dove non solo i ricordi non serviranno a capire cosa sia “Rosabella”, ma non serviranno neanche a riportare in vita Kane), oppure quando il ricordo diviene impossibile, trasformandosi in allucinazione (come avviene, sempre in Welles, ne La signora di Shangai).
Si vede come le due teorie si legano: la pressione della profondità di campo può condurre o ad una disfunzione della memoria, che si trasformerà in macchina allucinatoria, oppure arrivare sin nei meandri della falda passato , ma per recuperare un ricordo che non servirà più a niente. In questo senso il cinema di Welles è profondamente bergsoniano, ed è chiaro come l’intera sua opera si ponga come decisiva all’interno del discorso sull’immagine-tempo. Questo meccanismo messo in moto da Welles all’interno della sua opera e in particolar modo con Quarto potere, che era comunque dipendente da un centro narrativo (la morte del protagonista, Kane) da cui la rievocazione dei ricordi trovava spunto, verrà ribaltato nell’opera di Alain Resnais. Proprio in film come il precedentemente citato L’anno scorso a Marienbad , il regista francese darà corpo a universi nei quali la rievocazione del passato non ruota attorno a nessun centro narrativo, dove il flashback non esiste praticamente più, dove le memorie entrano in contatto diretto, a costo di non trovare nessun canale dove sia possibile comunicare:
Ora, la prima novità di Resnais è la scomparsa del centro o del punto fisso. La morte non fissa un presente attuale, tanti sono i morti che ossessionano le falde di passato. La voce fuori campo non è più centrale, sia perché entra in rapporti di dissonanza con l’immagine visiva, sia perché si divide e si moltiplica[42].
Sarà proprio ne L’anno scorso a Marinebad che ritroveremo tutti questi temi: la “memoria a due” dei protagonisti, A e X, sarà una memoria di impossibile da ricomporre, quasi come se A si installasse in una falda di passato diversa da quella sulla quale si trova X, di modo tale mentre “X gravita in un circuito di passato che comprende A[…]mentre A è in regioni che non comprendono X o lo comprendono solo in forma nebulosa”[43]. Allo stesso modo la voce fuori campo non costituirà mai un “centro” come in Welles, sarà anzi spesso accusata di falsità da qualche altra voce che la interromperà, oppure sarà un mera sovrapposizione di tante voci (come avviene nel travelling iniziale che attraversa le varie stanze dell’albergo). In questo modo quello scarto tra reale e immaginario, che in Welles era comunque riconoscibile, si fonde in una “relatività generalizzata e arriva fino al limite di ciò che in Welles era soltanto una direzione: costruire alternative indecidibili tra falde di passato”.[44] Resnais costruisce così un cinema che affonda interamente le sue radici nel “passato puro”, pur senza dover ricorrere al meccanismo del flashback, poiché non vi è più un presente attuale dal quale diventerebbe possibile evocarlo. In questo modo si arriva ad un vero e proprio annientamento dell’asse cronologico, dove la sequenzialità degli eventi si annulla, in favore di una proliferazione di interazione e raccordi e “concatenamenti” tra varie falde di passato, che appartengono anche a personaggi diversi: la memoria, le memorie , diventano una sorta di cartografia, dove ogni punto ha la possibilità di concatenarsi con un altro lontanissimo e trovarsi invece massimamente distante dal suo più prossimo (in questo senso Deleuze invoca la “trasformazione del fornaio”[45]). In questo modo la cartografia della memoria costruita da Resnais, questa topologia, acquisisce quei tratti che Deleuze, di concerto con Felix Guattari ,aveva individuato, già in Mille piani[46], come caratteristici del rizoma, concetto che i due filosofi sviluppavano in contrapposizione alle strutture arborescenti articolate dalla linguistica, e in particolare da Noam Chomsky (1928):
Qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso a qualsiasi altro e deve esserlo. E’ molto differente dall’albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine. L’albero articola e gerarchizza i calchi, i calchi sono come le foglie dell’albero. Tutt’altro è il rizoma, carta e non calco.. Fare la carta e non il calco[…] La carta è aperta, è connettibile in tutte le sue dimensioni, smontabile , reversibile, suscettibile di costanti rimaneggiamenti.[47]
Il cinema diventa così, nelle mani di Resnais, una gigantesca cartografia delle falde di passato, dove queste possono incontrarsi ed entrare in contatto, senza la necessità che ci sia un’effettiva evocazione che giunga dal di fuori: la macchina da presa diventa strumento di un’esplorazione di tanti “continuum” di passato che sono le “falde”, tracciando per l’appunto una carta di passati che si intrecciano fra di loro,che sono in costante mutamento e rimaneggiamento, sospesi in una indecidibilità che li mantiene costantemente aperti ad una possibilità ulteriore.
Ma cosa succede quando da questa descrizione “topologica” si genera una narrazione? Come si porrà questa narrazione nei confronti delle nozioni di verità e falsità, se ogni tempo cronologico è annullato, in favore di una coesistenza di punte di presente e falde di passato?
La potenza del falso
“E se non vi è nulla da vedere dietro il sipario è perché tutto il visibile, o piuttosto tutta la scienza possibile, si trova lungo il sipario, che è sufficiente seguire abbastanza lontano e abbastanza rasente, abbastanza superficialmente, per rovesciarne il diritto, per far si che la destra diventi sinistra e viceversa.” [48]
Abbiamo visto fino a adesso come il regime “cristalino” dell’immagine, e della descrizione, si opponesse al regime che potremmo definire “organico”, caratteristico del cinema dell’immagine-movimento: mentre la descrizione organica presupponeva una sorta indipendenza dell’oggetto da essa descritto, ossia l’oggetto “rappresentato” veniva posto come indipendente dalla descrizione che di esso se ne faceva; la descrizione cristallina forma il proprio oggetto nel momento stesso in cui essa stessa si produce: “la descrizione stessa, ora, costituisce il solo oggetto scomposto moltiplicato”. La descrizione che si origina in seno all’immagine-cristallo non vale perciò per qualcosa d’altro, non riferisce di un qualcosa che le è estraneo; è piuttosto valida di per se stessa, pienezza assoluta, totale presenza a sé: non manca di niente , poiché esiste solo in quanto da a vedere ciò che è. Questa distinzione tra “organico” e “cristallino” implicava, come si è visto, una problematizzazione dei rapporti tra reale e immaginario: se nel regime organico il “logico” scorrere degli eventi e delle situazioni veniva preservato, nel regime “cristallino” tutto ciò è messo fortemente in discussione dal sovrapporsi costante delle varie dimensioni temporali, dal rapportarsi ,sempre variabile, tra attualità e virtualità.
Questo avviene anche e soprattutto perché i legami senso-motori attivi nel regime “organico” dell’immagine, si sciolgono in favore di un “andare a zonzo”, di una mera esplorazione, che taglia ogni legame motorio, che spezza l’azione, in favore di una trasformazione dello spazio, che passa dall’essere “luogo d’azione” a “luogo di esplorazione”. Lo spazio stesso allora si articolerà in maniera diversa: se esso era continuo, “organico” nel suo strutturarsi in maniera logica e razionale, nel regime “cristallino” esso è divenuto sconnesso, spezzato: il suo strutturarsi è caratterizzato dal falso raccordo, dalla “disinquadratura”, dal brandello che è in connessione costantemente variabile col tutto. E’ Deleuze a spiegarci il significato di questo cambiamento:
Ora, è particolarità di questi spazi che i loro caratteri non possano essere spiegati in maniera esclusivamente spaziale. Implicano relazioni non localizzabili. Sono presentazioni dirette del tempo. Non abbiamo più un tempo cronologico[..]abbiamo un tempo cronico, non-cronologico, che produce movimenti necessariamente “anormali”, essenzialmente “falsi”[49].
Da questi spazi sconnessi dunque, da questa impossibilità di ricostruire lo spazio nella sua totalità lineare, procede l’annientarsi della dimensione cronologica del tempo, in favore del prodursi di una temporalità che Deleuze chiama “cronica”, che da luogo a movimenti che diventano “anormali” e “falsi”. La differenza rispetto ai concetti di spazio individuati come attivi in seno al regime dell’immagine-movimento è evidente: mentre lo spazio all’interno del quale si produceva un movimento normale era “centrato”, costituiva “l’ambiente in cui le tensioni si risolvono secondo un principio di economia”[50]; lo spazio che da luogo all’immagine-tempo è sconnesso, a-centrato, dispersivo. Per meglio illustrare questa differenza “topologica” che Deleuze individua, possiamo di nuovo far ricorso al concetto di “spazio liscio” elaborato dallo stesso Deleuze insieme a Guattari in Mille piani, che richiama in maniera evidente la questione degli spazi sconnessi, “reimanniani”[51] e non “euclidei”, caratteristici del cinema dell’immagine-tempo. Lo “spazio liscio” veniva elaborato in opposizione allo “spazio striato”, che avrebbe invece come correlato lo spazio “centrato” , “euclideo” dell‘immagine-movimento:
In ogni modello, infatti, il liscio ci è sembrato appartenere a un’eterogeneità di base: feltro o patchwork e non tessitura, valori ritmici e non armonia-melodia, spazio rimangiano e non euclideo, variazione continua che supera ogni ripartizione delle costanti e delle variabili, liberazione di una linea che non passa tra due punti e di un piano che non procede per linee parallele e perpendicolari.[52]
Questo spazio “liscio”, frammentato, è dunque costantemente soggetto ad un ri-concatenamento variabile: il “tutto” del film diventa perciò un sistema privo di stabilità, che produce costantemente uno scarto, un sovrappiù, o una mancanza, che causerà un ulteriore rimaneggiamento, causando quella “cronicità” individuata da Deleuze. Questo quadro concettuale dà luogo necessariamente ad uno sviluppo, che ha a che vedere non più con la “descrizione”, ma con la “narrazione” che a partire da essa si sviluppa. Se infatti il tempo smette di essere cronologico per divenire cronico, se il reale e l’immaginario diventano indistinguibili, allora la narrazione che si sviluppa in seno a questo regime sarà costantemente in bilico tra il “vero” e il “falso” che diverranno anch’essi indistinguibili.
Questo accade perché ciò che viene a mancare è un rapporto stabile tra il fluire lineare del tempo e la nozione di verità. La verità, come nozione, ha da sempre a che vedere con il tempo inteso cronologicamente, e anzi trova sua effettuazione solo all‘interno di questo regime, come è dimostrato dal paradosso dell’indecidibilità dei “futuri contingenti”: “ se è vero che una battaglia navale può aver luogo domani, come evitare una di queste due conseguenze: o l’impossibile procede dal possibile (perché se la battaglia avviene non è più possibile che non avvenga), oppure il passato non è necessariamente vero (perché poteva non avvenire)”[53]. Ecco che il concetto di verità, se messo in relazione con un tempo non cronologico, si dimostra fallimentare, entra in un corto circuito: o il passato non era “vero” o ciò che accade è “impossibile”. Nella narrazione “cristallina”, o meglio ancora “falsificante”, l’incompossibilità (leibnizianamente) di queste dimensoni trova spazio e attualizzazione: “non si tratta affatto di ‘a ciascuno la sua verità’[…]è una potenza del falso che sostituisce e spodesta la forma del vero, perché pone la simultaneità di presenti incompossibili o la coesistenza di passati non-necessariamente veri”[54].Le due possibilità, i due futuri, che Leibniz definiva per l’appunto “incompossibili” fra di loro, ossia “possibili” solo in due universi distinti e separati, si ritrovano a convivere entrambi nello stesso universo, o addirittura nella stessa immagine. Se il tempo cronologico viene a mancare, se in uno stesso “universo” ritroviamo presenti incompossibili e passati indecidibili, conseguentemente la “verità” si troverà ad essere costantemente “ripresa” nell’infinito ripiegarsi del tempo su se stesso: il protagonista di questa nuova forma di narrazione non è più l’uomo “verace”, non è più l’eroe che deve passare attraverso una serie di esperienze per ritrovare se stesso, e il senso della sua storia; esso è piuttosto il falsario, o la “serie” di falsari: in effetti è il “falso” stesso, inteso come potenza, che passa attraverso tutti i personaggi, rendendoli tutti falsari.
Il nodo centrale della questione ha a che fare anzitutto con le questioni del giudizio e dell‘identità: quel cinema che trovava nel concatenamento senso-motorio la sua principale “motivazione” instaurava per sua stessa natura una sorta di sistema di giudizio che non lasciava nessuno scampo, poiché la narrazione, effettuata per raccordi logici e razionali, procedeva in ogni caso da un punto di partenza ad uno di arrivo, punto d’approdo che instaurava un senso che diveniva definitivo, riconsegnandoci un protagonista restituito alla sua identità. La narrazione falsificante invece, introducendo il “falso” come potenza che attraversa ogni cosa, destituisce ogni pretesa di “giudizio” poiché questo diviene letteralmente impossibile:
La potenza del falso (e non l’errore o il dubbio) riguarda l’investigatore e il testimone tanto quanto il presunto colpevole [55].
Il falsario perciò, non è propriamente un personaggio, è piuttosto l’incarnarsi della potenza del falso in uno di essi; tanto che in F come falso di Welles, sarà nelle parole dello stesso Pablo Picasso che si annullerà ogni differenza tra un falsario qualunque e il medesimo autore di Guernica: Picasso stesso potrebbe dipingere perfettamente un “falso Picasso”. Non è la “persona” di Picasso a rendere l’opera “un’originale”, e non è il fatto che sia un falsario a dipingere il quadro che renderà il quadro stesso “falso”; è il falso come potenza a determinare l’originalità o falsità dell’opera: in questo senso anche un quadro dipinto da un falsario potrebbe diventare un “Picasso originale”. E allo stesso modo Elmèr il falsario e il suo biografo si sono resi, nelle parole di Welles, “vicendevolmente famosi”: chi mente? Chi è più falso dell’altro? Dove finisce la falsità di Elmèr e comincia quella del biografo?
Il “falso” dunque, che attraversa ogni cosa da parte a parte, si lega in maniera indissolubile alla sparizione della dimensione cronologica, e all’instaurarsi di questa cronicità del tempo: il “senso” della narrazione non si bloccherà ad un ipotetico punto d’approdo, ma continuerà a girare su se stesso, sempre aperto ad un rimanegiamento, sopprimendo ogni giudizio definitivo; e allo stesso modo l’identità di ogni personaggio verrà costantemente contraffatta, in favore di una vitalità pre-individuale, attraversata da questa “potenza” che rovescia ogni rapporto d’identità, dando luogo alla formula “Io è un altro”[57].
Tant’è che per Deleuze:
La potenza del falso esiste solo sotto l’aspetto di una serie di potenze che si rinviano le une alle altre e passano le une nelle altre. Cosicchè investigatori, testimoni, eroi innocenti o colpevoli parteciperanno della medesima potenza del falso di cui incarneranno i gradi a ogni tappa della narrazione.[…]Il falsario sarà dunque insep’arabile da una catena di falsari nei quali si metamorfizza. Non c’è un falsario unico, e se il falsario svela qualcosa è l’esistenza dietro di lui di un altro falsario, foss’anche lo Stato[…]la narrazione non avrà altro contenuto che l’esposizione di questi falsari, il loro slittamento dall’uno all’altro, le loro metamorfosi gli uni negli altri.[58]
Il costante mutare degli elementi in gioco mette perciò costantemente in discussione ogni verità acquisita; ma la potenza del falso non è paragonabile all’errore o al dubbio: essa è inaggirabile, ed è insediata in ogni cosa o elemento, perché ogni cosa è aperta ad una riconsiderazione che ne muta il senso ed il ruolo, perché “il mondo vero non esiste, e , se esistesse, sarebbe inaccessibile, inevocabile e, se fosse evocabile, sarebbe inutile, superfluo”[59]. Il mondo pertanto si riduce ad essere fatto di sole apparenze, come nel cinema di Fritz Lang (1890-1976), dove “tutto è apparenza e quindi questo nuovo stato trasforma, più che sopprimere, il sistema di giudizio”[60].La potenza del falso acquisisce allora, nel pensiero deleuziano, la stessa natura che aveva la “volontà di potenza” nietzschiana: essa è quella forza che esercitandosi genera il senso, il “movimento” del senso, che si fa generatore di mondo. Tutto questo “movimento” lo si ritrova già in Differenza e ripetizione , dove Deleuze, illustrando la “terza sintesi del tempo” supera le tesi bergsoniane , mostrando i meccanismi che presiedono al generarsi dell’avvenire, che liberano il tempo dai propri cardini:
Il tempo fuori dai propri cardini significa il tempo sconvolto che, uscito dalla curvatura impressagli da un dio[…]rovescia il proprio rapporto col movimento, in breve si scopre come forma vuota e pura[…]il tempo come forma pura e vuota ha disfatto il circolo. Lo ha disfatto , ma a vantaggio di un circolo meno semplice e molto più segreto, molto più tortuoso, più nebuloso, eternamente eccentrico[…]che si riforma unicamente nel terzo tempo della serie.[…]E così il fondamento è stato superato verso un senza-fondo, universale sfondamento che gira su se stesso e non fa ritornare che l’a-venire[61]
Il tempo che perde le proprie coordinate cronologiche genera una narrazione che diviene forzatamente affetta da una potenza del falso che a sua volta produce una proliferazione, una “ripetizione”, che scarta dallo “stesso” in favore di una alterità che è l’avvenire: è l’arte, o meglio ancora l’artista, che non è nient’altro che il falsario elevato all’ennesima potenza:
Quel che l’artista è, è creatore di verità, perché la verità non può essere raggiunta, trovata né riprodotta, deve essere creata. Non esiste altra verità che la creazione del Nuovo.[62]
Questa proliferazione del nuovo che procede dall’elevazione di questa potenza del falso, è anche un atto di resistenza, un atto politico:
La politicità del cambiamento consiste nella volontà, mostrata alcuni registi e movimenti artistici, di smarcarsi dal cinema come produzione del consenso di massa[…]Un’immagine senso motoria è già in se stessa un clichè, un’immagine mutila del reale, ritagliata secondo determinati interessi pragmatici[…]il clichè è la morale stessa[…]Al di là del bene e del male si trova soltanto l’immagine pura.[63]
Il “falso” diventa in questo modo lo strumento, la strategia attraverso la quale la si fa finita col giudizio, per far proliferare la vita. L’invenzione del nuovo, l’apertura di un altro possibile, sono dei correlati di questa “potenza del falso”: se in prima istanza Deleuze annovera l’impossibilità di un giudizio “veridico” fra gli effetti dell’instaurarsi del regime falsificante, in un secondo momento quest’impossibilità diventa in un certo senso, soprattutto per quel che riguarda il cinema di O. Welles, la causa scatenante dell’imporsi del regime stesso:
L’uomo verace insomma non vuole nient’altro che giudicare la vita, erige un valore superiore, il bene, in nome del quale potrà giudicare, ha sete di giudicare, vede nella vita un male, una colpa da espiare: origine morale della nozione di verità. Come Nietzsche, Welles non ha mai smesso di combattere il sistema del giudizio: non esiste valore superiore alla vita, la vita non deve essere giudicata né giustificata, è innocente, possiede l’innocenza del divenire, al di là del bene e del male…[64]
Questa “potenza” , come già detto, non si confonde con il dubbio. Il “falso” è parte integrante del mondo e del suo senso, è lo stesso “prodursi” del senso inteso come l’insopprimibile apertura, modificabilità e indecidibilità del senso delle cose: Alice diventa contemporaneamente più grande e più piccola, “diviene” in due sensi opposti contemporaneamente, ha “l’innocenza del divenire”. E’ la nozione stessa di verità che in seno a questo pensare muta, trasformandosi, da istanza giudicante, ad atto di “creazione”, “produzione” di qualche cosa che prima non c’era, “vita zampillante, ascendente, che sa trasformarsi, metamorfosizzarsi, secondo le forze che incontra, e con loro compone una potenza sempre più grande, aumentando sempre la potenza di vivere, aprendo sempre nuove possibilità”[65] In questo senso allora il cinema diventa un macchina potentissima, uno strumento d’indagine ma anche di creazione, che ci restituisce il reale caricato di tutte le sue possibilità: la realtà di cui facciamo esperienza attraverso il cinema moderno è una realtà al massimo della sua potenza, carica di “possibile”, creatrice di “verità” e di “pensiero”.
[1] G. Deleuze, L’immagine-tempo, pag. 96
[2] G. Deleuze, L’Immagine-movimento, Ubulibri, 2002, Milano, pag.77
[3] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, Ubulibri, 2002, Milano
[4] H. Bergson, Materia e memoria, Laterza, 2006, Bari
[5] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pag. 57
[6] Ivi, pag. 57
[7] Ivi, pag. 67
[8] Ivi, pag. 93
[9] Ivi, pag. 97
[10] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, 1997, Milano, pag.110
[11] M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, 1950, Torino
[12] Ivi, pag. 114
[13] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pag. 97
[14] M. Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di R. De Gaetano, Bulzoni, 2003, Roma, pag. 409
[15] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pag. 84
[16] Ivi, pag. 96
[17] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo
[18] Ivi pag. 83
[19] Ivi, pag.84
[20] Ivi, pag.84
[21] Ivi, pag.96
[22] Ivi, pag.113
[23] Ivi, pag.113
[24] J. L. Borges, Finzioni, Einaudi, 1995, Torino, pag.49
[25] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pag. 114
[26] Ivi, pag. 114
[27] Ivi, pag. 113
[28] Ivi, pag. 113
[29] Ivi, pag. 114
[30] Ivi, pag. 115
[31] Ivi, pag. 115
[32] G. Deleuze, La logica del senso, Feltrinelli, 2006, Milano.
[33] Ivi, pag. 9
[34] G. Deleuze, L’immagine-tempo, pag.115
[35] Ivi, pag. 116
[36] A. Resnais, L’anno scorso a Marienbad, 1961, Francia/Italia
[37] Ivi, pag. 116
[38] Ivi, pag. 120
[39] O. Welles, Quarto potere, 1941, Stati Uniti
[40] Ivi, pag. 121
[41] Ivi, pag. 125
[42] Ivi, pag. 132
[43] Ivi, pag. 134
[44] Ivi, pag. 133
[45] “un quadrato può essere trasformato stirandolo in un rettangolo le cui due metà formeranno un nuovo quadrato, di modo che la superficie totale sia redistribuita a ogni trasformazione. Se si considera una regione di questa superficie, piccola quanto si vuole, due punti infinitamente vicini, al termine di un certo numero di trasformazioni, finiranno per essere separati, ognuno ripartito in una metà. Ogni trasformazione possiede un’età interna e si potrà considerare una coesistenza di falde o di continuum di età diverse. Questa coesistenza o queste trasformazioni formano una topologia” , Ivi pag. 135
[46] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2006, Roma
[47] Ivi, pp. 39-49
[48] G. Deleuze, La logica del senso, pag. 16
[49] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pp. 146-47
[50] Ivi, pag. 145
[51] “Diciamo ad esempio che c’è spazio rimangiano quando il raccordo fra le parti non è predeterminato, ma può esser fatto in molti modi”, Ivi, pag. 146
[52] G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, pag. 715
[53] Ivi, pag. 147
[54] Ivi, pag. 148
[55] Ivi, pag. 150
[56] O. Welles, F come Falso-verità e menzogne, Francia, Iran, Germania Ovest, 1974.
[57] Ivi, pag. 151
[58] Ivi, pag. 151
[59] Ivi, pag. 155
[60] Ivi, pag. 155
[61] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, pp. 119-123
[62] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pp.164-165
[63] P. Godani, Deleuze, Carocci editore, 2009, Roma, pp. 133-134
[64] G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, pag. 155
[65] Ivi, pag. 159
Author: Antonio Ricciardi
Antonio Ricciardi è un ricercatore indipendente laureato in Linguaggi Multimediali e Informatica Umanistica presso L’Orientale di Napoli. L’oggetto della sua ricerca è focalizzato sui temi del ritmo e della temporalità sviluppati nel quadro della filosofia novecentesca, con particolare riferimento al pensiero di G. Deleuze e A. N. Whitehead. Suoi scritti sono apparsi su Kaiak. A Philosophical Journey, Menelique, NOT
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